Il referendum, strumento debole di partecipazione

Domenica scorsa a Sestri Levante il referendum ha chiuso, almeno momentaneamente, il percorso di realizzazione del nuovo porto turistico. Senza entrare nel merito del quesito referendario, la vicenda sestrese mi permette di fare alcune riflessioni sullo strumento referendum.

Il referendum è certamente uno strumento di partecipazione, su questo non ci sono dubbi. A mio avviso è però uno strumento debole e con l’ausilio dell’esperienza sestrese cerco di spiegare il perché.
Provo ad individuare alcuni punti di riflessione:

1) La maggior parte dei sestresi domenica non è andata a votare (come sappiamo ha votato il 38,33 %). Se fosse stato un referendum nazionale non avrebbe raggiunto il quorum. Forse ai sestresi non interessa decidere il futuro del porto? Non credo. Il porto è un tema molto sentito che va al di là e ben oltre gli schieramenti politici. Forse allora i sestresi non vogliono “partecipare”? O forse, più semplicemente, chi non è andato a votare si aspettava che l’amministrazione sarebbe andata avanti comunque nella sua opera?

2) È ormai un fatto assodato che se l’amministratore opera delle scelte e poi chiede al cittadino di dire un sì o un no, una buona parte di cittadini risponde: “No, per principio! chissà cosa c’è sotto!”.

3) Quali motivazioni ha mosso chi è andato a votare? Molti hanno votato condizionati dall’opinione che hanno su altre scelte operate da questa amministrazione o addirittura dalla precedente, in altri spazi della città: ad esempio la vicenda delle aree ex FIT o quelle del Canterino di Riva Trigoso.
È corretto? Non riuscendo a partecipare ci sta che il cittadino utilizzi ogni possibilità per esprimere il proprio dissenso, ma nei fatti si discuteva del progetto del porto.

4) Emerge ancora una volta il ruolo ingombrante delle sigle di partiti nazionali nella politica del territorio. Si è trattato di un referendum di fatto proposto da DS e Margherita ed è subito scattato il cosiddetto “gioco delle parti”. Il Polo è contrario per definizione (“Bisogna dare una spallata ai governi di centrosinistra!”); la neonata Italia di Mezzo ha espresso una posizione probabilmente condizionata dagli esiti della recente competizione elettorale provinciale; infine sono riemerse, come già in occasione della crisi chiavarese e delle elezioni di Rapallo, le fratture e le posizioni di potere in seno ai livelli comprensoriali (DS) o regionali (Margherita) dei due partiti proponenti.
Per i partiti nazionali fare partecipazione è ormai impossibile?

A mio avviso il segnale che arriva da Sestri è quello della necessità di un cambiamento di rotta: le persone devono partecipare dall’inizio nei processi decisionali per la loro comunità e non solo alla fine come implica lo strumento referendario. 
Le grandi scelte per il territorio sono possibili se c’è il coinvolgimento attivo di tutte le risorse che quel territorio esprime, soprattutto umane. Altrimenti, o prima  o dopo, interverrà sempre una raccolta di firme, un referendum, una azione di protesta che le impedisce. E il territorio non cresce.
Cosa deve fare chi amministra per imboccare questa strada?
In primo luogo deve investire per organizzare la partecipazione. La partecipazione è una scienza. Non si improvvisa. Per realizzarla in modo corretto e soddisfacente per chi partecipa, ci vuole un approccio scientifico, ponderato. Soprattutto non occasionale.
Inoltre deve scegliere decisamente la strada della partecipazione “collaborativo/negoziale” (cfr. Martini, Torti, Fare lavoro di comunità, Ed. Carocci Faber, pag. 61) grazie alla quale “partecipare non significa solo denunciare, significa anche impegno per costruire e concorrere alla ricerca e all’attuazione delle soluzioni” (cfr. idem)
Infine, per qualsiasi amministrazione la partecipazione deve essere il metodo di 365 giorni.

Permettetemi allora questa conclusione paradossale e provocatoria: forse in futuro dovremo interpretare i referendum come il segno che siamo ancora lontani da una autentica partecipazione dei cittadini nella gestione della cosa pubblica.